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Le zone umide da salvaguardare

Siamo in vacanza in Valtournenche, come sempre negli ultimi 8 anni.

Una valle certo pesantemente sfruttata, ma ancora con scorci maestosi e angoli di vera bellezza alpina.

Con la famiglia proviamo un nuovo sentiero. Dopo aver fatto l’8 da Perrères a Promoron (un largo sentiero in piano, un classico per le famiglie), saliamo invece che verso la diga di Cignana, verso l’Alpe Cortina lungo il n˚ 2. Magico sentiero nel bosco, fino a una terrazza con vista sulla valle. Qui 4/5 laghetti o zone umide sarebbero un delizioso completamento di una superba passeggiata se non fosse che tutto è prosciugato. Decine di minuscole ranocchie cercano rifugio in 3 dita d’acqua. Nonostante l’arsura la vita brulica nelle minuscole pozze rimaste. Pochi metri più in su le malghe dell’Alpe Cortina drenano evidentemente tutta l’acqua disponibile.

Vado a curiosare.

Come al solito un caos di tubi di plastica nera, molti tagliati e abbandonati, in un generale senso di disordine e abbandono. L’acqua comunque va altrove. Nessuno ignora ormai quanto importanti siano le zone umide, e quanto rare siano in particolare quelle di montagna. L’acqua qui abbonda ovunque ed è utilizzata per tutto. Certo serve all’agricoltura. Ma con poca attenzione in più potrebbe essere anche di supporto alla biodiversità, un bene inestimabile, un valore culturale e un’attrazione turistica.

Les Iles, un esempio di progetti sbagliati

AOSTA – Avevo già criticato da queste pagine il progetto da 12 milioni di euro chiamato «Viva» che l’assessore all’agricoltura e la dirigente competente per le aree protette Santa Tutino avevano pubblicizzato in apertura di un recente convegno come finalizzato alla conservazione della biodiversità, ricevendo in risposta generiche affermazioni che nulla rispondevano nel merito.

Di tutti questi soldi solo una piccola parte, meno del 6%, saranno spesi realmente per proteggere e conservare le risorse naturali, il resto andrà a compiacere imprese, progettisti e consulenti impattando pesantemente sull’ambiente.

Un esempio formidabile di quanto affermo viene offerto a chiunque visiti oggi la piccola riserva naturale Les Iles: qui l’impreparazione dei progettisti ha toccato livelli di punta, perché per far passare la pista ciclabile, invece che utilizzare percorsi già esistenti, come per esempio la poderale che affianca l’autostrada o il tracciato della pista che già attraversa in parte l’area protetta, oppure ancora la sponda del fiume già cementificata, costruendo un nuovo tracciato è stato devastato e seriamente ridotto il già piccolo bosco ripario, ben strutturato dal punto di vista forestale e molto prezioso per mantenere alta la biodiversità del sito perilacustre. Forse il motivo di questa scelta risiede nel non voler espropriare poche migliaia di metri quadrati di terreni confinanti, risultato che si poteva comunque ottenere facendo scelte diverse da quella adottata. Ho paura ora di scoprire come verranno spesi gli altri soldi previsti per questa piccola riserva (in tutto 1,3 milioni di euro!) che aveva solo bisogno di essere chiusa al traffico veicolare, limitando anche quello delle biciclette e dei cani per proteggere meglio le specie di uccelli nidificanti, spendendo poche migliaia di euro.

Quando all’arroganza politica e a quella personale si accompagna anche l’ignoranza dei più semplici princìpi ecologici, si possono sprecare molti soldi e fare molti danni, rimanendo oltretutto convinti di essere nel giusto.

Biodiversità, la tutela passa dalla conoscenza

In merito alle affermazioni del signor Rossi, pubblicate il 5 giugno scorso, si rileva, con stupore, come ci sia ancora, nel 2012, chi ritenga che tutelare la biodiversità nelle Alpi significhi vietare qualsiasi intervento o azione umana, limitandosi a qualche studio scientifico i cui risultati possono, forse, essere condivisi e compresi da pochi eletti dotati di adeguate capacità. Tutelare la biodiversità per il signor Rossi non significa, quindi, anche promuovere la conoscenza del patrimonio naturale, lʼattività didattica, lʼinformazione e la divulgazione, definire modalità di fruizione sostenibili, coinvolgere gli operatori economici, le guide escursionistiche-naturalistiche e le strutture ricettive, sostenere gli agricoltori che lavorano nei territori tutelati. Peccato che le strategie europee e nazionali promuovano proprio tali attività, come ricordato anche dal rappresentante del ministero dell’Ambiente intervenuto in video conferenza (un altro indegno intervento?). A beneficio di coloro che non hanno partecipato all’incontro del 22 maggio, si precisa che le risorse citate provengono in gran parte da fondi statali o europei (Fondo europeo di sviluppo regionale, Programmi di cooperazione territoriale, Piano di sviluppo rurale ) che attraverso la promozione dello sviluppo socio economico contribuiscono, secondo lʼinterpretazione del signor Rossi, allo scempio naturale. Informazioni più dettagliate sull’uso di tali risorse sono reperibili sulle deliberazioni di giunta che, ricordo, sono atti pubblici. Peccato, ancora, che lʼinterlocutore, così preparato e consapevole della gravità del problema secondo le sue affermazioni, abbia scelto di comunicare il suo pensiero attraverso le pagine di un giornale, anziché intervenire nel dibattito, condividendolo in un confronto civile e democratico. Ma anche questo, forse, denota il livello di «biodiversità culturale» di chi preferisce sempre criticare piuttosto che condividere e costruire nuovi modelli di sviluppo e di relazioni.

Un’altra strada per la montagna? Convegno su paesaggio, agricoltura ed ed economia

Saint Christophe, 3 dicembre 2009

A nome delle associazioni promotrici di questo convegno ringraziamo i presenti, i patrocinanti (architetti e agronomi) e i relatori che presento velocemente con i titoli delle rispettive comunicazioni

Da sempre gli ambientalisti valdostani guardano alla vicina Svizzera con interesse e spesso con invidia, non solo per federalismo, trilinguismo democrazia referendaria che non non ha paura di confrontarsi con i cittadini, ma per le limitazioni poste al traffico dei Tir, per le esperienze di tariffazione sulla raccolta dei rifiuti ecc.

E’ interamente svizzera anche una delle montagne del nostro sky line, il Gran Combin che consideriamo parte integrante del nostro paesaggio.

E’ normale quindi che ci rivolgiamo alla Svizzera anche in relazione al tema che affronteremo stasera.

Ricordiamo che oltre ai professori Rodewald e Zappa è svizzero di famiglia anche l’Institut agricole rappresentato questa sera dal suo direttore della ricerca Andrea Barmaz.  Come lui gioca in casa anche Stefano Lunardi che presenta un’esperienza fatta in collaborazione con la facoltà di agraria dell’Università di Torino.

Dal nostro altro vicino, il Piemonte, provengono gli altri due relatori i proff Devecchi e Cavallaro.

Le ragioni per cui abbiamo voluto promuovere questo convegno nascono da fatti contingenti che non saranno oggetto specifico degli interventi dei relatori: si tratta delle note vertenze dei tre Valloni, Comboé, Alleigne e San Grato del cui stato ci limitiamo a dare una brevissima informazione:

per Comboé, vinto il ricorso al Tar  siamo in attesa della sentenza del Consiglio di Stato;

anche per l’Alleigne  è tutto fermo e attendiamo il pronunciamento della sovrintendenza sull’ipotesi di un tratto sperimentale di ripristino dell’antica mulattiera;

per San Grato, il cui territorio è oggetto di uno degli studi che verranno illustrati  tra poco, abbiamo fatto osservazioni al Via sul progetto che prevede la costruzione di una strada di servizio ai 4 alpeggi ancora vivi.

E’ evidente che il titolo scelto per questa serata è volutamente ambiguo: c’è un immagine del Vallone di San Grato e c’è questo punto interrogativo che mette al centro la domanda: serve un’altra strada in queste nostre montagne che ne hanno già 1800 chilometri? O ci sono altri modi di preservare l’agricoltura e l’allevamento in montagna?

Ma c’è anche l’altro significato del titolo che mette al centro la necessità di una riflessione generale sulle politiche dei territori alpini partendo dal concetto di paesaggio, che torna alla ribalta per gli architetti, per gli agronomi, ma anche per i filosofi,  dopo un periodo in cui sembrava relegato all’ambito della pittura.

La riflessione che vogliamo proporvi, a partire da studi universitari, da ricerche e dalle loro sperimentazioni sul territorio, nasce dalla consapevolezza che il secolo che abbiamo alle spalle e che ha visto nascere il concetto di paesaggio come bene comune da tutelare (le prime regolamentazioni risalgono in Italia agli anni Venti) ha visto la tutela di tale bene quasi sempre perdente rispetto agli interessi economici speculativi e no.

Con le unghie e coi denti sono state difese poche aree assediate e guardate a vista dal vero e proprio saccheggio che ha imbruttito e imbrattato il nostro Paese e tantissimi altri.

Ed è forse la prima volta nella storia dell’umanità che l’impatto umano investe e travolge equilibri e armonia che avevano in passato caratterizzato il rapporto tra la natura e le attività umane.

Non possiamo non ricordare che tra una settimana si apre a Copenhagen un incontro decisivo per trovare altre strade per il pianeta.

Noi nel nostro piccolissimo cerchiamo di dare un contributo alla soluzione di questi problemi partendo, com’è nostra abitudine, da dati, ricerche, esperienze pratiche e ci auguriamo che queste possano diventare la base per un confronto serio con gli amministratori pubblici, con i decisori politici, ma anche con i professionisti che hanno un ruolo importantissimo nelle scelte.

Relazioni:

Relazione 1: Raimund Rodewald

Relazione 2: Flavio Zappa

Relazione 3: Andrea Cavallero e Giampiero Lombardi

Relazione 4: Marco Devecchi

Relazione 5: Andrea Barmaz

Relazione 6: Stefano Lunardi